Le narrazioni di mia madre - il più delle volte - erano legate al caffè, punto di incontro dove si intrecciavano ricordi e storie quotidiane.
In quei racconti circolavano informazioni sul mondo, si rinnovava la forza della ritualità, riportavano all'ingresso del campo aperto della parola, che trasforma l'invisibile in visibile.
Io ero bambina e la ammiravo guardandola come se fosse una maga che si serve di parole, formule e storie e la accompagnavo sul palco di quel suo teatro, protagonista ai miei occhi attraverso la sua voce che faceva accadere le cose.
La moka borbottava sul fuoco e nel momento esatto in cui lei mi chiedeva di spegnere suonava il campanello. Erano Angela e Stefania, le sue amiche.
Il caffè era pronto per essere servito.
E così aveva inizio il rito del caffè pomeridiano nella cucina di casa nostra, luogo centrale della vita familiare e che, in quel momento, mia madre trasformava nella sua dimora di maga, luogo intimo e segreto, nel quale scorreva il fiume delle voci che camminano danzando e disegnano il mondo.
E io, spettatrice, ascoltavo. Alcune cose le capivo, altre rimanevano poco sensate per i miei pensieri di bambina, ma quelle narrazioni viaggiavano dentro di me.
Le vite sono fatte di storie, che rimangono vive nel tempo finché le
raccontiamo e le scriviamo.
La mia scrittura oggi è ponte tra quei ricordi, quelle emozioni e quelle scoperte del femminile legate alle donne che hanno popolato la mia gioventù e quella mia costante ricerca di trovare le parole esatte per raccontare me stessa.